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Non si può fare la co-progettazione con i fichi secchi

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Non si può fare la co-progettazione con i fichi secchi

By Aurora Donato | Appalti pubblici, Terzo settore | 0 comment | 29 Luglio, 2024 | 0

Mi capita spesso di dire che alcune attuali convinzioni sull’utilizzo della co-progettazione sono frutto di un “trauma”, ovverosia del grande impatto del parere del Consiglio di Stato n. 2052/2018 che – sottolineando insistentemente il rischio di un conflitto tra gli istituti collaborativi ai sensi del Codice del Terzo settore e la disciplina degli appalti pubblici, salvo che le prestazioni fossero rese a titolo gratuito – per un periodo di tempo ha di fatto paralizzato le pubbliche amministrazioni nell’impiego di questo istituto così ricco di potenzialità.

Proprio a valle di tale “trauma”, le Linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore (d.m. 31 marzo 2021, n. 72) hanno sottolineato la necessità di una compartecipazione alle spese da parte dell’ente del Terzo settore (ETS), come se questo fosse un elemento caratterizzante della co-progettazione e l’art. 6 del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) è arrivato a definire i modelli organizzativi della c.d. amministrazione condivisa come del tutto “privi di rapporti sinallagmatici”, distorcendo la sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020, che parlava invece di un meccanismo “non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico” e, dunque, non arrivava a escludere la sostenibilità dell’operazione per gli enti del Terzo settore.

In tale contesto, una recente sentenza del Consiglio di Stato, nel concludere che la decisione di un Comune di utilizzare la co-progettazione anziché un appalto pubblico fosse illegittima, ha ritenuto dirimente (oltre a un eccesso di dettaglio nella descrizione del servizio, rilievo invece condivisibile) la presenza alcuni indici di un’asserita assenza di gratuità (Cons. Stato, Sez. V, 22 maggio 2024, n. 4540).

In particolare, la sentenza sottolinea che “l’art. 4 del Bando ‘Durata e risorse’ non si limita a prevedere il rimborso delle spese vive, prevedendo il pagamento (e non il semplice rimborso), previa fatturazione da parte del soggetto affidatario, di una parte dei fattori produttivi, ritenendo ammissibile il pagamento delle seguenti spese: le spese di gestione, i compensi agli operatori, il rimborso spese ai volontari, la retribuzione agli esperti. Pertanto solamente una parte residuale dei costi (8%) del servizio grava sul soggetto affidatario, mentre la maggior parte dei costi, ovvero il restante (92%) resta a carico del Comune. Appare evidente come si sia ben lontani dal concetto di gratuità di cui al richiamato parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato e come l’asserito pagamento non sia un mero rimborso delle spese vive, con esclusione della remunerazione, anche indiretta, dei fattori produttivi tra cui il lavoro, posto che solo per i volontari è previsto un rimborso spese, mentre sono previsti compensi per gli operatori e retribuzioni per gli esperti” (Cons. Stato, Sez. V, n. 4540/2024).

Intanto, bisognerebbe ricordare al Consiglio di Stato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, la circostanza che sia previsto quale corrispettivo per un servizio il mero rimborso delle spese sostenute non costituisce in realtà un elemento decisivo affinché un contratto esuli dalla nozione di appalto pubblico (così la sentenza c.d. Spezzino, 11 dicembre 2017, C-113/13).

Ma soprattutto è il caso di tenere bene a mente la differenza tra il compenso degli operatori e l’utile dell’ente. Tutte le voci elencate nella sentenza in esame a ben diritto si trovano tra le “spese ammissibili” di qualsivoglia progetto per cui sia prevista la rendicontazione delle spese.

O forse il Consiglio di Stato pensa che i lavoratori e le lavoratrici impiegati in una co-progettazione non debbano essere retribuiti? Mentre negli appalti pubblici almeno sulla carta si richiede la congruità delle offerte e si discute sempre di più di tutela dei lavoratori e delle lavoratrici e di aspetti sociali, sembrerebbe che nella co-progettazione si voglia creare una zona franca in cui si costringono gli enti del Terzo settore a sfruttare i propri lavoratori, oppure a lavorare cronicamente in perdita.

Non si tratta di uno scenario accettabile, perché per quanto gli enti del Terzo settore siano privi di scopo di lucro, questi devono intraprendere operazioni sostenibili, per non pregiudicare il perseguimento delle loro finalità sociali, oltre che il benessere dell’utenza dei servizi e dei loro lavoratori e lavoratrici. Già la fase di co-progettazione viene svolta dagli enti a titolo gratuito e già gli stessi enti vengono gravati da richieste di compartecipazione che assomigliano spesso a ribassi economici, ci manca solo che si ritenga che non possano essere rimborsati i compensi degli operatori impiegati nel servizio.

In proposito è il caso di sottolineare che la sentenza in esame si basa anche su altri rilievi, fra cui, in particolare, il regime di fatturazione e il già segnalato grado di dettaglio della descrizione del servizio nel bando. È il caso di affermare con chiarezza che il costo del personale – come anche una quota parte di spese generali – possono e devono costituire spese ammissibili a rendicontazione nella co-progettazione.

Più in generale, però, è evidentemente ora di cambiare impostazione sulla co-progettazione – anche a costo di limitarne l’utilizzo agli affidamenti sotto-soglia – e di affermare chiaramente che ciò che caratterizza davvero questo istituto rispetto agli appalti pubblici sono le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale tipiche degli enti che ne sono protagonisti e non certo la strampalata idea che si tratterebbe di attività da svolgersi necessariamente “in perdita”, da enti strozzati la cui sofferenza non conviene a nessuno, tantomeno alla pubblica amministrazione che gli affida un servizio.

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Aurora Donato

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