Gli appalti pubblici per l’affidamento della gestione dei centri antiviolenza (CAV) e delle case rifugio per le donne vittime di violenza sono regolamentati da una disciplina specifica, aggiuntiva al Codice dei contratti pubblici e alla normativa di settore dei servizi sociali e volta a garantire l’adozione di un corretto approccio alla violenza di genere.
In particolare, un aspetto che risulta particolarmente delicato e rilevante è quello dei requisiti dei soggetti che si candidano a gestire i centri. Infatti, l’art. 5-bis, co. 3, d.l. n. 93/2013 (conv. con mod. dalla l. n. 119/2013), è molto netto nel richiedere che chi gestisce i centri deve “operare nel settore del sostegno e dell’aiuto alle donne vittime di violenza”, abbia “maturato esperienze e competenze specifiche in materia di violenza contro le donne” e che utilizzi “una metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne, con personale specificamente formato”.
La ragione di questa previsione risiede nell’importanza di evitare che la gestione dei centri antiviolenza sia affidata a soggetti che gestiscono in generale servizi sociali di vario tipo, non essendo l’esperienza nella gestione di altri servizi fungibile con quella richiesta per la gestione di quelli volti al contrasto della violenza di genere, gestione caratterizzata da una specifica metodologia dell’accoglienza basata sulla relazione tra donne, in attuazione della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, adottata a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013) e le altre fonti in materia, che indicano il lavoro in ottica fortemente orientata al genere come condizione necessaria per la gestione dei servizi antiviolenza, oltre che la centralità dell’empowerment come pratica di libertà e assunzione di responsabilità.
I requisiti minimi dei centri antiviolenza e delle case rifugio erano stati di recente stati rivisti da un’intesa della Conferenza unificata (Rep. Atti n. 146/CU del 14 settembre 2022), che sostituiva sul punto la precedente del 27 novembre 2014, risolvendo finalmente alcune problematiche che erano state da tempo sottolineate da chi operava nel settore.
L’Intesa del 2022 richiede infatti che i soggetti gestori dei centri antiviolenza e delle case rifugio avessero nel loro statuto gli scopi del contrasto alla violenza maschile e di genere e dell’empowerment da almeno 5 anni, per evitare inserimenti “dell’ultimo minuto” e, al fine di dare concretezza alla richiesta che le attività di prevenzione e contrasto alla violenza maschile siano perseguite statutariamente “in modo esclusivo o prevalente”, si inserisce il parametro di valutazione della consistenza percentuale delle risorse destinate in bilancio.
Il 25 gennaio 2024, tale atto, già recepito da molte leggi regionali è stato modificato, per ora solo prorogando il termine del periodo transitorio in cui i CAV e le case rifugio già presenti alla data dell’Intesa del 2022 negli elenchi/albi regionali possono adeguarsi ai requisiti (Rep. atti n.15/CU del 25 gennaio 2024). Nelle premesse, tuttavia, si fa riferimento anche all’istituzione di un tavolo tecnico per modificare entro 18 mesi l’intesa del 2022.
È evidente che – a meno di non voler pregiudicare i principi sopra richiamati, mettendo a repentaglio i percorsi delle utenti dei CAV – i requisiti per i soggetti gestori dei CAV non dovranno essere modificati “a ribasso”.